La strada delle porte chiuse

La strada delle porte chiuseMi è stato suggerito l’interessante percorso escursionistico che, da Saline di Volterra, porta su fino all’antica città etrusca di Volterra seguendo il dismesso tratto dell’antica ferrovia a cremagliera. A Saline, ho chiesto indicazioni sul punto di partenza dello storico sentiero, e una signora mi ha risposto che si doveva “passare accanto ai cani”, indicando con la mano la direzione che avrei dovuto prendere.

Ho seguito per un tratto il vecchio binario poi ho incontrato la strada bianca che avevo visto in foto e video su internet. Il margine destro era delimitato da una serie continua di costruzioni di fortuna in vari materiali di recupero; dall’altro lato della via si accedeva a orti e ulteriori costruzioni fatiscenti. La vegetazione rigogliosa sembrava accarezzare il ferro e il legno, decorava le pareti di plastica e s’arrampicava sulle reti metalliche per incorniciare porte chiuse con lucchetti o bloccate da cerniere arrugginite. Il binario morto mi aveva condotto in una favela immersa nel verde, puntinata dal rosso dei papaveri che crescevano tra gli scarti e i cedimenti delle baracche.

L’immagine complessiva era di una bellezza che solo il contrasto sa dare. Vita e morte si toccavano con grazia regalando un quadro composto di colori emergenti da una spiritualità che girava sui cardini del romanticismo.

Quando mi colpì l’odore fecale portato da un refolo d’aria, seppi di cosa si trattava e quando sentii il primo uggiolare ne ebbi la conferma: la serie di ricoveri altro non era che la baraccopoli dei cani da caccia. I colori del quadro si arricchirono della disperazione espressa nei guaiti e latrati che accompagnarono il mio transitare, eppure riuscii a cogliere anche la gioia, e forse la speranza, dentro il battere ritmato di una coda contro la lamiera.

Il muso di un cane comparve dentro lo squarcio nella parete e annusò l’aria che mi portavo appresso. Gli parlai come avrei parlato a un bambino in prigione o una donna dietro la griglia di un harem; usai parole di comprensione e incoraggiamento cercando d’immaginare il volto del padrone, quell’uomo che con sentimenti paterni ne aveva decretato la schiavitù. Immaginai un padre, com’è ritratto in certe scritture religiose, il maschio dominante la famiglia, che educa, usa e abusa per il bene del sottoposto, ma sempre nell’osservanza della legge. Era forse un uomo convinto di essere nel giusto e per questo non attaccabile sul piano della logica, una mente dentro una gabbia culturale, un quadro emotivo aggrappato a certezze ferree. Ce ne sono tanti e non è facile scardinare il loro credo, aprire uno spiraglio nelle porte chiuse dei loro cuori.

Un ululato si sollevò dietro una parete di legno e, uno dopo l’altro, si aggiunsero decine di suoni acuti che si alzarono come un unico pianto verso un cupo cielo toscano. La bellezza di quell’attimo struggente si frantumò nel pensiero che non avrei potuto fare nulla per loro; erano vaccinati, nutriti e accuditi, probabilmente anche amati benché considerati alla stregua di oggetti. Ma la legge era stata rispettata.